giovedì 10 febbraio 2011

Il secondo capitolo di "Un aperitivo per tre"

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PAOLA




Sento alcuni guaiti molto familiari ancora prima di varcare il cancello arrugginito. Mi sorprendo a sorridere. Chi sta meglio di me?! È una splendida giornata di sole di metà marzo, nell’aria posso già avvertire le dolci note della primavera imminente. Sto andando dai miei cucciolotti adorati, che mi aspettano scodinzolando e mi fanno sempre un sacco di feste.
Vengo qui al canile quasi ogni giorno per dare una mano con gli animali. Pulisco le gabbie, preparo le ciotole di croccantini (quando ci sono) o di pasta scaduta (molto più spesso), do una lavata a uno o due cani e, se è una bella giornata come oggi, ne porto qualcuno a passeggio. Sapeste quanto ne hanno bisogno!
Lo so che non è un vero e proprio lavoro, what a pity! Se lavori ti pagano e qui io non vedo un soldo, anzi a volte ci metto pure qualche decina di euro, per comprare lo shampoo antipulci o qualche chilo di mangime.
Ma chi se ne importa! Le soddisfazioni che mi danno i miei amati quattrozampe mi ripagano mille volte, altrochè!
Io continuo a ripeterlo: gli animali sono molto meglio degli uomini (o donne che siano). Non ti chiedono niente e in cambio ti offrono tutto il loro mondo.
A volte ci parlo pure, con i miei cani. Non sono pazza, questo ve lo assicuro; so benissimo che non mi possono rispondere e probabilmente non capiscono la lingua umana, però sono convinta, anzi, straconvinta, che il senso generale possano intuirlo. Stanno lì a fissarmi con quegli occhioni lucidi così dolci e, tra un’ insaponata e un getto d’acqua tiepida, parlo loro delle mie giornate, spettegolo delle persone che conosco, rifletto sulla mia vita....
Loro ascoltano e, a dire la verità, sono degli ottimi confidenti. Non mi danno consigli, it’s obvious, ma a volte i consigli non servono a niente. A volte ti basta solo poterne parlare.
Anche per questo adoro venire al canile. Sono le due ore più rilassanti dell’intera giornata. Certo, torno a casa che puzzo come un sacco di Friskies e una volta mi sono pure trovata una zecca sul polpaccio, ma è il prezzo da pagare per la felicità!
Parcheggio vicino all’entrata. Non è che sia un posto così affollato, qui non ci viene quasi mai nessuno, purtroppo. Le visite più frequenti sono di persone che hanno trovato un cane per strada, o che dicono di averlo trovato in giro, ma in realtà glielo si legge negli occhi che quel cane è loro. Quello che qualche anno, o mese prima, era un cucciolo morbido e tenero e che ora è diventato troppo ingombrante, troppo sporco, o solo troppo…
Ecco quello che facciamo: sorridiamo, diamo loro il benvenuto, accogliamo la povera bestiola e li salutiamo con la mano quando rimontano in auto e partono sgommando sul ghiaino. Più felici forse no, ma di sicuro con un pensiero in meno. E a volte, per liberarsi la coscienza, ci lasciano un’offerta in denaro, che ci aiuta a tirare avanti.
Non sono mica tutti così, of course. La maggior parte dei cani sono accompagnati qui da persone che, nonostante tutte le buone intenzioni, non possono dare una casa al cucciolo trovato sul marciapiede o in un parcheggio. E alcuni di loro, ogni tanto, tornano anche a trovarlo. Ma solo per le prime settimane, poi, giustamente, se ne dimenticano. Non li sto biasimando, questo no. Già che uno si prenda la briga di raccattare un cane per strada e portarlo in un posto sicuro è ammirevole. Fossero tutti così!
Il problema è che con le buone intenzioni non si campa e noi siamo sempre alla ricerca di fondi per tirare avanti. Sarà merito della Provvidenza, ma fino ad adesso ci è andata bene.
Non appena varco la soglia del canile, le narici si riempiono di quell’odore così familiare, che molti trovano sgradevole, ma che a me riempie il cuore.
Sono fatta così, se potessi vivrei su un’isola deserta, ma solo se fosse piena di animali, cani soprattutto. Penso che troverei la pace interiore.
Corro subito a salutare la mia Nanà, una piccola beagle di appena un anno, sempre scodinzolante. La mia preferita. Poi ci sono anche Febo, un boxer ormai in pensione, che con la sua bava potrebbe riempire i secchi; Alk, un incrocio tra un labrador e un pastore belga, nero dalla testa alle zampe e all’apparenza poco cordiale, ma dall’animo tranquillo e bonario; Mac, una specie di bassotto (dico una specie perché nessuno è ancora riuscito ad individuarne le origini) e Baffie e Haika, due splendide bastardine, una bianca e l’altra color cappuccino.
E poi ci sono i cani arrivati senza un nome, ai quali, come da tradizione (ma chi l’avrà mai iniziata questa tradizione?), vengono affibbiati nomi di persone: ci sono Ramon, Camilla, Carlo (forse un velato riferimento ai reali inglesi?!), Diana (figurati!), Abramo. E il mio piccolo Adelchi, che ho battezzato proprio io solo qualche settimana fa.
12 cani, 12 code, 12 cuoricini. E 12 musetti da sfamare!
Saluto Gianni, il responsabile del canile, che sta pulendo la cuccia di Febo e inizio la mia ronda quotidiana di saluti e leccate alla faccia. Quanto li adoro!

Dopo un’oretta decido che ho voglia di farmi un giro all’aria aperta. Recupero un guinzaglio e faccio uscire una raggiante Nanà dalla sua piccola prigione. Per quanto pulita, resta sempre una prigione.
E così ci incamminiamo lungo la stradina sterrata che costeggia il canile. A destra e a sinistra solo campi coltivati e qualche albero che fiancheggia il sentiero. Silenzio assoluto.
E parte la mia conversazione a senso unico.
«Sai Nanà, mi ci voleva proprio una bella passeggiata. Anche a te, vero?  Eh già, non credo sia il massimo passare tutte quelle ore tra Alk e Diana che non la smettono un attimo di abbaiare. Chissà poi cos’avranno di così interessante da raccontarsi!» E mi metto a ridere da sola.
Ok, ora certamente penserete che ho qualche rotella fuori posto. Ma non vi è mai capitato di parlare da soli, magari in macchina durante un lungo tragitto, o davanti allo specchio? Ogni tanto penserete pure a qualcosa, isn’t it?! Ecco, diciamo che io penso a voce alta e mi succede più spesso quando sono con i cani. Tutto normale quindi, vero? Ahahah, ma sì!
«Oggi mi sento bene. Nonostante la mia testa continui a frullare, mi sento leggera. È vero, non ho un lavoro, non un vero lavoro almeno, e finché non lo trovo sono costretta a condividere la casa con i miei e mio fratello, maledetta quella volta che mi lamentavo perché ero figlia unica! Ma si aggiusterà tutto, credi a me. Troverò un lavoro, me ne andrò finalmente da casa, dimenticherò completamente Marco e magari incontrerò pure l’anima gemella! Sì, dirai tu, nei tuoi sogni! Eh eh, in effetti, nei miei sogni sarebbe proprio così...» .
Sono stanca di aspettare che le cose si aggiustino, stanca di spedire richieste di lavoro a qualunque indirizzo mi capiti sotto mano.
So che sono fortunata, perché, nonostante da qualche mese a questa parte non guadagni un soldo, i miei non mi fanno pesare la cosa e continuano a mantenermi. Ma sono io che non voglio, damn’t! Così non riuscirò mai a diventare indipendente, mi tengono ancora al lazo, un lazo dorato, ma troppo stretto. Mi fa soffocare.
Mia madre è sempre lì: «Dove vai? Cosa fai? Cosa vuoi per cena? Hai mangiato a pranzo? Perché non fai un salto dal parrucchiere? Comprati qualcosa di decente, di più femminile! Puzzi di cane». E via dicendo.
Non sono cattive persone, i miei genitori. Tutt’altro. Mia madre è la classica chioccia, che passa le giornate a cucinare per la famiglia e a rassettare una casa già tirata a lucido – ma mai con un capello fuori posto, niente bigodini o grembiuli informi. Si è sempre presa egregiamente cura di tutti noi, ma a volte è troppo soffocante.
Quando ero piccola andavamo molto d’accordo, parlavamo per intere serate della scuola, degli allenamenti di basket o dei miei amici, la consideravo un’alleata.
Ma ora ci siamo allontanate: so che non riesce più a capirmi, non appoggia le mie scelte ed è sempre pronta a criticare quello che faccio. Non è stato un cambiamento improvviso: solo, col passare degli anni, chiacchieravamo sempre meno.
Alle scuole superiori preferivo raccontare i problemi alle mie amiche, piuttosto che confidarmi con lei. Adesso mi rendo conto che è un atteggiamento più che naturale per un’adolescente, fa parte del percorso di crescita. Lei, però, non si è dimostrata così comprensiva: credo se la sia presa, con me o solo con se stessa.
Fatto sta che siamo diventate praticamente due estranee che vivono sotto lo stesso tetto, con la compagnia di un padre/marito sempre fuori per lavoro e di un fratello/figlio troppo viziato, che detta legge a nome di tutti.
Questo è il punto: a casa mia mi sento sola. Non è casa mia, è casa loro. Non ho alleati.
Anche Luca, il dolce bambino al quale cambiavo i pannolini o che accompagnavo al parco ogni pomeriggio, mi si è rivoltato contro. Ora è un adolescente sfacciato e menefreghista, il “piccolo di casa” che riceve tutte le attenzioni e non si fa problemi ad approfittarne.
Credo che ad influenzare l‘atteggiamento permissivo di mia madre nei suoi confronti contribuisca la frustrazione per non essere riuscita a mantenere un rapporto stretto con me, la sua figlia maggiore. Appena ho potuto me ne sono andata di casa; certo, non in maniera definitiva, purtroppo. Ma ho idea che lei l’abbia preso come un affronto personale, come se l’avessi in qualche modo rifiutata. Così ha riversato tutto il suo amore su Luca, forse con la speranza che, permettendogli di fare tutto quello che vuole, lui rimarrà a casa per sempre. Illusa.
Ecco un’altra cosa che mi fa imbestialire: i miei genitori hanno sempre fatto enormi differenze tra me e Luca, in quanto femmina e maschio. Non si sono mai preoccupati di nascondere questi atteggiamenti assolutamente maschilisti.
A diciott’anni io neanche potevo dormire a casa di un’amica, lui invece si fa già i weekend al mare con le ragazze. La mia prima volta che mi hanno lasciato trascorrere una notte fuori con Marco eravamo insieme da qualcosa come due anni. Due anni! Quando mio fratello dorme fuori quasi tutti i sabato sera e a volte neanche gli viene chiesto dove passa la notte. Incredibile, isn’t it?!

Rientriamo al canile dopo un’abbondante mezz’ora, mi sento appiccicosa e credo di puzzare anche, ma questa passeggiata mi ha rinvigorito.
Lascio Nanà alla sua pappa, saluto Gianni e tutti i miei cucciolotti e ritorno alla macchina.
Imbocco la strada asfaltata e, dopo due curve, sono in statale.
Metto un cd dei Black Eyed Peas e, cantando, torno verso casa. Ferma al primo semaforo rosso, rispondo al messaggio che mi ha mandato Mavi: «Domani pranzo insieme?».
«Sure! Che domande!».
«Ok, alle 12,30. Più tardi ti do l’indirizzo. Baci».
Cerchiamo di vederci per pranzo almeno una volta alla settimana, così ce la possiamo raccontare come si deve. Un toast e due chiacchiere.
Vada per domani allora. Anche se già so quale sarà l’argomento di punta: Mavi si sposa tra soli tre mesi. Lei sì che ha trovato la sua anima gemella.
Il semaforo diventa verde. Sto per ripartire quando sento un forte rumore sordo che proviene dal paraurti e una spinta abbastanza violenta al mio sedile. Dammit!
Mi faccio due calcoli: io sono davanti, la colpa è sempre di chi è dietro, quindi sono a posto. Perfetto direi. Ci mancava solo il tamponamento di metà pomeriggio.
La prima cosa che mi passa per la testa?! Ora scendo, mi trovo davanti un adone, bello da togliere il fiato, che si scusa e mi invita a cena per rimediare al disturbo. Già, la mia fantasia ha sempre corso un po’ troppo veloce, fin da quando ero piccola.
Poi però mi do un’occhiata veloce allo specchietto retrovisore e mi rendo conto che la realtà è diversa dal film che mi sono fatta in testa: non sono proprio pronta per l’incontro romantico della vita.
Un casco disordinato di capelli color miele, troppi, raccolti alla bell’e meglio (indomabili come al solito) fa da contorno ad un viso completamente struccato e arrossato dall’aria. Per non parlare della felpa di due taglie più grandi, dei pantaloni cargo sformati e, dettaglio non trascurabile, dell’odore da cane che emano.
Comunque sia, trovo il coraggio di scendere dall’auto e mi preparo al rendez-vous con l’incauto automobilista.
La Bmw che bacia non molto dolcemente il sedere del mio piccolo Suv non fa altro che alimentare le mie fantasie di abito bianco e violini che suonano The mission di Ennio Morricone. E fin qui, tutto bene.
La portiera si spalanca brutalmente e ne esce... una bella gamba avvolta da una calza velata nera, alla cui estremità spunta una decolletè grigia tacco 10. Sexy, per carità, ma di certo non molto mascolina.
In un attimo vedo dileguarsi il quartetto d’archi e il prete mi fa See you con la mano. Pazienza, sarà per la prossima volta. Almeno smetto di preoccuparmi per il mio aspetto indecente e mi concentro su quello che devo dire.
Non faccio in tempo ad aprir bocca che la ragazza si mette ad inveire in maniera pesante contro non so chi e sono quasi sicura di aver sentito uscire una mezza bestemmia dalle sue labbra dalla forma perfettamente a cuore. Però, sono davanti ad una vera signora!
Ok, mi dico, calma e sangue freddo.
«Ehm, buongiorno» inizio incerta.
«Buongiorno un cazzo!» mi sento rispondere. Giusto, ha parlato la contessa.
«Ehm, sì, capisco... Comunque non è successo niente di grave, se mi dà i suoi dati in un attimo sistemiamo tutto» Tanto è colpa tua, bellezza!
«Sì sì, ok» E giù con un’altra parolaccia. Devo ricordarmi di guardare un cartone della Disney stasera, qui c’è in pericolo la mia moralità.
Si gira verso l’auto, apre la portiera e, come d’incanto, le appare la borsa in mano. Ma non viene subito da me. Si china verso il volante, sembra cercare qualcosa nel portaoggetti. Bene, la constatazione amichevole almeno ce l’ha!
Quando ritorna la sua voce ha un tono meno maleducato: «Senti, sarei un po’ di fretta» attacca «non è che mi lasceresti il tuo numero e facciamo tutto magari domani?».
Seeeee, ciao. Pensi che sia completamente rincitrullita?! «Non mi sembra una grande idea, dobbiamo sistemare le cose adesso». Brava, falle vedere che non ti intimorisce.
«No, davvero, la colpa è mia, ma ora proprio non posso fermarmi». Mi guarda e la bocca le si increspa in una specie di broncio patetico. Non starà mica scoppiando a piangere?! Ok, questa non me l’aspettavo. Non sono proprio senza cuore.
E, soprattutto, ho voglia di andare a casa il prima possibile e infilarmi sotto alla doccia.
«Senti, facciamo così. Mi tiro giù gli estremi della tua patente e mi lasci un numero di telefono. Ci sentiamo domani, così sarai più tranquilla». E l’Oscar della pace va a..... me!
«Grazie» mi fa tirando su con il naso «Davvero». Allora conosce anche la parte educata del dizionario.
Mi porge la patente, fa uno squillo sul mio cellulare ed è pronta per abbandonare la scena. Risale sulla Bmw, ingrana la marcia e mi sfreccia di fianco.
Ora, non avrò una vista da lince, ma mi sembra di aver intravisto un sorriso sul suo volto in quell’istante e, cosa ancora più strana, mi sono accorta che non era sola in macchina. Al suo fianco, intento a guardare da vicino il tappetino, qualcuno dall’aria fin troppo familiare.

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